Come si possono sfruttare le infinite potenzialità del digitale per facilitare il lavoro di medici e radiologi nel diagnosticare una patologia e nella comunicazione con colleghi e pazienti? Ce lo racconta il Dott. Paolo Tinazzi Martini, medico radiologo e ideatore del progetto Icon Report.
La tecnologia digitale sta cambiando il mondo che ci circonda, rivoluzionando uno dopo l’altro qualunque settore, dall’industria ai servizi, dai trasporti all’intrattenimento, creando nuove opportunità, modalità di lavoro e forme di fruizione. Gli ambiti della realtà virtuale e della modellazione 3D sono senza dubbio tra quelli che più stanno influenzando questa trasformazione, grazie all’efficacia e alle illimitate applicazioni offerte dai loro strumenti. Ma come possono questi strumenti essere utili anche in un campo complesso e delicato come la diagnostica, migliorando l’efficacia di radiografie, ecografie, risonanze magnetiche e Tac e incrementando la qualità del servizio per gli utenti?
Ne abbiamo parlato con il Dott. Paolo Tinazzi Martini, radiologo presso l’Istituto Salus di Belluno e il Cems di Verona, nonché ideatore e fondatore di Icon Report.
Quali sono le difficoltà che chi fa il suo mestiere si trova ad affrontare oggi?
“Il limite di noi medici è che siamo abituati a fare diagnosi utilizzando descrizioni che sono narrative. Un referto è una spiegazione di quanto riscontrato nel corso dell’esame: per quanto precisa, rimane pur sempre una spiegazione ‘a parole’ e la sua affidabilità dipende appunto dalla correttezza e dall’appropriatezza dei termini che si scelgono. È da ottant’anni che si discute su come deve essere fatto un referto e il nodo cruciale è sempre la forma, il ‘come’ debba essere espresso. Nella mia carriera mi sono occupato molto spesso di patologie pancreatiche e il pancreas è un organo particolarmente difficile, perché asimmetrico, irregolare, non semplice da descrivere. Mi è capitato spessissimo che il chirurgo venisse da me chiedendomi informazioni più approfondite e di vedere insieme le immagini degli esami, al fine di pianificare meglio un intervento. Questo è il sintomo che il sistema attualmente adottato non va: esistono situazioni anatomiche troppo complesse per essere ridotte a un breve paragrafo descrittivo. Si tratta di una grave criticità del sistema, da cui derivano errori e fraintendimenti che possono avere conseguenze molto gravi per la salute delle persone”.
Come è nata l’idea di usare la tecnologia 3D?
“Per tentare di risolvere questo evidente problema di espressione e di comunicazione, già vent’anni fa iniziai a stampare le key image prodotte dagli strumenti radiologici e a inserirle in un banale programma di grafica ricalcandole a penna sul touchpad. Successivamente, creavo un’infografica completa con tanto di frecce e didascalie, per andare a localizzare con precisione sull’immagine quanto riscontrato nell’esame. Ovviamente il tempo di lavoro raddoppiava o triplicava, e potevo permettermi di farlo solo per i casi più complicati, ma la risposta era sorprendente: sia i colleghi medici con cui dovevo confrontarmi sia i pazienti a cui dovevo fornire il quadro clinico apprezzavano la chiarezza e la semplicità, e le informazioni venivano trasmesse senza possibilità di confusione o incomprensione. Da qui, con gli anni, è nata l’idea di sviluppare uno strumento in grado di fare automaticamente e con precisione quello che io facevo a mano e nel 2015 abbiamo finalmente depositato il brevetto europeo“.
Come funziona in pratica il sistema Icon Report?
“Ci basiamo su un modello 3D semplificato, una sorta di atlante del corpo umano e di tutti gli organi, completo delle varie sezioni anatomiche. Poiché non esistevano modelli digitali adatti, abbiamo dovuto sviluppare tutto da zero e ci stiamo ancora lavorando. Si tratta di immagini più semplici rispetto alla complessità di un’immagine radiologica, ma il nostro scopo è appunto quello di ricondurre la complessità e l’unicità di ogni singolo caso a una forma intellegibile e facilmente confrontabile. Il radiologo non deve fare altro che andare a segnare la lesione nel segmento e nella posizione esatta in base a quanto emerso. Si crea così un profilo digitale del paziente, che contiene tutto l’iter e tutti gli esami effettuati, una sorta di album cronologico dove è possibile vedere l’evoluzione della patologia e i progressi delle terapie“.
A chi si rivolge questo strumento e quali sono i vantaggi principali?
“Abbiamo pensato innanzitutto ai radiologi, ma il beneficio si estende a cascata a tutta la comunità medico scientifica, dal chirurgo allo specialista fino al medico di famiglia. Con questa tecnologia tutti hanno a disposizione un quadro oggettivo della situazione, che non risente cioè dell’interpretazione che un singolo può fornire di una determinata immagine. Non dimentichiamo che qualsiasi azione umana è passibile di errore, e questo riguarda anche chi ricopre un ruolo di altissima responsabilità, come appunto i medici. Andando a posizionare il placeholder sull’immagine, il sistema genera automaticamente la descrizione della patologia e il referto, che tra l’altro può essere gestito in qualunque lingua. In questo modo si parte da un dato universale e non opinabile, e ad ogni esame si può arricchire il file multimediale del paziente con la stessa oggettività e chiarezza espositiva, così da favorire la comunicazione e la condivisione di informazioni tra le varie figure chiamate a intervenire nel corso del tempo”.
Cosa manca perché questa tecnologia diventi il nuovo standard di riferimento?
“Le potenzialità ci sono e non riguardano solo l’incremento delle performance a livello diagnostico e per il lavoro dei medici. Parliamo anche del paziente, che grazie alle simulazioni grafiche 3D può comprendere meglio la sua condizione e addirittura avere una proiezione di ciò che accadrà dopo un intervento chirurgico o una terapia, così da essere consapevole dei rischi e delle diverse vie percorribili. L’unico ostacolo da superare è rappresentato dalla diffidenza di tanti professionisti: molti sono restii ad abbandonare le proprie consuetudini, magari portate avanti per decenni, per abbracciare un metodo di lavoro nuovo. Si tratta di una rivoluzione, e come in tutte le rivoluzioni serve apertura, coraggio e un radicale cambio di mentalità. È un fatto di innovazione scientifica ma soprattutto di etica professionale, perché stiamo parlando di riuscire a fare meglio il nostro lavoro per aiutare meglio chi ne ha bisogno. Perché il sistema venga adottato su larga scala ci vorranno forse anni, ma le buone idee vincono sempre. È solo questione di tempo”.