Cosa vuol dire produrre in modo biologico? Può un vino diventare uno strumento di educazione alimentare? Lo abbiamo chiesto a Domenico Cescon, contitolare della storica cantina veneta.

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Mentre sempre più persone si interrogano sull’origine di ciò che portano in tavola, parlare di vino significa anche parlare di terra, di etica e di scelte consapevoli. L’azienda Italo Cescon, da tre generazioni custode di saperi vitivinicoli profondamente radicati nel territorio veneto, ha scelto di andare oltre la semplice produzione, abbracciando la filosofia del biologico, del rispetto dei ritmi naturali e di una filiera trasparente.

Il progetto MADRE, più che un’etichetta, è una dichiarazione d’intenti. Un vino che racconta la vita della vigna, ma anche il valore della cura, dell’origine e della responsabilità verso l’ambiente e verso chi lo beve. Ne abbiamo parlato con Domenico Cescon, nipote del fondatore e uno dei titolari dell’azienda di Roncadelle (TV), oggi presente con i suoi vini in 42 paesi.

Perché avete deciso di investire nel biologico?

“Abbiamo una tradizione pluridecennale che vogliamo tramandare e che si fonda sulla qualità. I nostri genitori ci hanno insegnato l’importanza di trasformare il prodotto nel modo più naturale possibile, quindi possiamo dire che la decisione di puntare tutto sul biologico non è che un’evoluzione del lavoro iniziato dai nostri nonni alla fine degli anni Cinquanta. Non è stato facile, ma sapevamo che era la cosa giusta da fare”.

Quali sono le sfide che avete dovuto e che dovete affrontare?

“Innanzitutto, il tempo. La conversione richiede almeno tre anni di ripulitura del terreno dai residui chimici e un rigido iter di certificazione. Nella quotidianità, poi, il biologico richiede una componente manuale molto più elevata: bisogna preparare la vite in modo che produca la quantità giusta e della qualità che vogliamo, e ogni fase, dalla potatura alla scelta dei tralci, è eseguita a mano con la massima attenzione, senza mai abbassare la guardia, perché il clima è imprevedibile e minacce come malattie e squilibri produttivi sono sempre in agguato”.

Com’è possibile garantire tracciabilità e trasparenza lungo tutta la filiera, dalla vigna alla bottiglia?

“Tutto avviene in modo rigoroso. Ogni lavorazione in campo è annotata nei quaderni di campagna, con registri dedicati ai singoli appezzamenti, alle fasi di raccolta e di cantina, fino al lotto di imbottigliamento. Così è possibile risalire in modo esatto all’origine di ogni bottiglia che vendiamo. La trasparenza però non riguarda solo il prodotto, ma tutto il sistema produttivo, persone comprese. Per questo, con fornitori e collaboratori siamo molto selettivi. Chi vuole lavorare con noi deve condividere la nostra etica e il nostro pensiero. A tutti cerchiamo di trasmettere energia, amore e passione per la vigna e per il vino, valori che contagiano positivamente e che fanno di noi una comunità molto unita”.

Cosa vuol dire fare il vino in modo etico e come si traduce questa filosofia nel quotidiano?

“Etica per noi vuol dire salvaguardare suolo e biodiversità: nei primi 5 cm di terreno vivono flora e fauna essenziali che dobbiamo proteggere. Semplice da dire, ma non tutti vogliono prendersi la responsabilità. A questo aggiungiamo un’autoproduzione di elettricità pari al 66% grazie al fotovoltaico e investimenti continui in R&S, dove sperimentiamo nuovi materiali e tecniche di coltivazione per ridurre ulteriormente l’impatto ambientale. Senza dimenticare l’uso di tappi ecosostenibili, dettaglio piccolo ma importante. Come tutto, del resto”.

Parliamo del vino MADRE. Un nome decisamente evocativo: come è nato e cosa rappresenta per voi?

“Il Manzoni Bianco è un vitigno tipico delle nostre parti, ideato negli anni ’30 dal prof. Manzoni della Scuola Enologica di Conegliano. Mio padre aveva un appezzamento, così abbiamo iniziato a fare delle prove per sviluppare il prodotto e presentarlo ai nostri contatti fidati, tra cui ristoratori e sommelier trevigiani e veneziani. Ci sono volute diverse vendemmie, ma il tempo ha premiato con un risultato eccezionale. Il nome, oltre a un riferimento al concetto di “terra madre” è una dedica a nostra madre, grande degustatrice, tanto che a 89 anni ancora partecipa ai lavori in cantina (e ancora, quando abbiamo un dubbio, chiediamo a lei un parere)”.

Crede che un vino come questo possa essere anche un mezzo per sensibilizzare le persone sull’origine degli alimenti?

“Certamente. Quando si assaggia, ha un’unicità e una ricchezza che fanno capire cosa c’è dietro. È un sorso di natura che conquista il palato e converte la mente, una prova che se tutti i prodotti fossero realizzati con lo stesso rispetto staremmo tutti meglio, noi e l’ambiente. Il fatto poi di non filtrarlo è per preservare l’essenza di ciò che ci offre la natura. Bisogna capire che ogni volta che mettiamo mano a un prodotto lo modifichiamo, cancellando un po’ della sua identità e delle sue origini. E noi vogliamo proprio il contrario, perché quello che produciamo non è una bevanda alcolica qualsiasi. È vino. Vino autentico”.

In un’epoca in cui tutto corre sempre più veloce, perché è importante tornare alle origini?

“Siamo imprenditori, ma prima di tutto produttori e il buon produttore deve ascoltare la natura. Quando si entra in vigna o in cantina il tempo rallenta e anche noi dobbiamo rallentare per adeguarci. Non è l’uomo che decide: noi siamo ospiti, comparse, collaboratori e non dobbiamo forzare i ritmi naturali. Prima che una vigna dia un vino con un profilo maturo bisogna attendere almeno dieci anni. Bisogna saper aspettare e avere fiducia: solo così possiamo dare al consumatore un vino che racconti davvero la sua storia”.

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