Quali sono le difficoltà che chi fa il suo mestiere si trova ad affrontare oggi?
“Il limite di noi medici è che siamo abituati a fare diagnosi utilizzando descrizioni che sono narrative. Un referto è una spiegazione di quanto riscontrato nel corso dell’esame: per quanto precisa, rimane pur sempre una spiegazione ‘a parole’ e la sua affidabilità dipende appunto dalla correttezza e dall’appropriatezza dei termini che si scelgono. È da ottant’anni che si discute su come deve essere fatto un referto e il nodo cruciale è sempre la forma, il ‘come’ debba essere espresso. Nella mia carriera mi sono occupato molto spesso di patologie pancreatiche e il pancreas è un organo particolarmente difficile, perché asimmetrico, irregolare, non semplice da descrivere. Mi è capitato spessissimo che il chirurgo venisse da me chiedendomi informazioni più approfondite e di vedere insieme le immagini degli esami, al fine di pianificare meglio un intervento. Questo è il sintomo che il sistema attualmente adottato non va: esistono situazioni anatomiche troppo complesse per essere ridotte a un breve paragrafo descrittivo. Si tratta di una grave criticità del sistema, da cui derivano errori e fraintendimenti che possono avere conseguenze molto gravi per la salute delle persone”.
Come è nata l’idea di usare la tecnologia 3D?
“Per tentare di risolvere questo evidente problema di espressione e di comunicazione, già vent’anni fa iniziai a stampare le key image prodotte dagli strumenti radiologici e a inserirle in un banale programma di grafica ricalcandole a penna sul touchpad. Successivamente, creavo un’infografica completa con tanto di frecce e didascalie, per andare a localizzare con precisione sull’immagine quanto riscontrato nell’esame. Ovviamente il tempo di lavoro raddoppiava o triplicava, e potevo permettermi di farlo solo per i casi più complicati, ma la risposta era sorprendente: sia i colleghi medici con cui dovevo confrontarmi sia i pazienti a cui dovevo fornire il quadro clinico apprezzavano la chiarezza e la semplicità, e le informazioni venivano trasmesse senza possibilità di confusione o incomprensione. Da qui, con gli anni, è nata l’idea di sviluppare uno strumento in grado di fare automaticamente e con precisione quello che io facevo a mano e nel 2015 abbiamo finalmente depositato il brevetto europeo“.
Come funziona in pratica il sistema Icon Report?
“Ci basiamo su un modello 3D semplificato, una sorta di atlante del corpo umano e di tutti gli organi, completo delle varie sezioni anatomiche. Poiché non esistevano modelli digitali adatti, abbiamo dovuto sviluppare tutto da zero e ci stiamo ancora lavorando. Si tratta di immagini più semplici rispetto alla complessità di un’immagine radiologica, ma il nostro scopo è appunto quello di ricondurre la complessità e l’unicità di ogni singolo caso a una forma intellegibile e facilmente confrontabile. Il radiologo non deve fare altro che andare a segnare la lesione nel segmento e nella posizione esatta in base a quanto emerso. Si crea così un profilo digitale del paziente, che contiene tutto l’iter e tutti gli esami effettuati, una sorta di album cronologico dove è possibile vedere l’evoluzione della patologia e i progressi delle terapie“.
A chi si rivolge questo strumento e quali sono i vantaggi principali?
“Abbiamo pensato innanzitutto ai radiologi, ma il beneficio si estende a cascata a tutta la comunità medico scientifica, dal chirurgo allo specialista fino al medico di famiglia. Con questa tecnologia tutti hanno a disposizione un quadro oggettivo della situazione, che non risente cioè dell’interpretazione che un singolo può fornire di una determinata immagine. Non dimentichiamo che qualsiasi azione umana è passibile di errore, e questo riguarda anche chi ricopre un ruolo di altissima responsabilità, come appunto i medici. Andando a posizionare il placeholder sull’immagine, il sistema genera automaticamente la descrizione della patologia e il referto, che tra l’altro può essere gestito in qualunque lingua. In questo modo si parte da un dato universale e non opinabile, e ad ogni esame si può arricchire il file multimediale del paziente con la stessa oggettività e chiarezza espositiva, così da favorire la comunicazione e la condivisione di informazioni tra le varie figure chiamate a intervenire nel corso del tempo”.
Cosa manca perché questa tecnologia diventi il nuovo standard di riferimento?
“Le potenzialità ci sono e non riguardano solo l’incremento delle performance a livello diagnostico e per il lavoro dei medici. Parliamo anche del paziente, che grazie alle simulazioni grafiche 3D può comprendere meglio la sua condizione e addirittura avere una proiezione di ciò che accadrà dopo un intervento chirurgico o una terapia, così da essere consapevole dei rischi e delle diverse vie percorribili. L’unico ostacolo da superare è rappresentato dalla diffidenza di tanti professionisti: molti sono restii ad abbandonare le proprie consuetudini, magari portate avanti per decenni, per abbracciare un metodo di lavoro nuovo. Si tratta di una rivoluzione, e come in tutte le rivoluzioni serve apertura, coraggio e un radicale cambio di mentalità. È un fatto di innovazione scientifica ma soprattutto di etica professionale, perché stiamo parlando di riuscire a fare meglio il nostro lavoro per aiutare meglio chi ne ha bisogno. Perché il sistema venga adottato su larga scala ci vorranno forse anni, ma le buone idee vincono sempre. È solo questione di tempo”.