Da dove è iniziato il vostro percorso?
Giovanni: “La passione per la terra ci arriva da nostro padre. È stato lui, nei primi anni Novanta, ad avere l’idea di utilizzare un piccolo terreno di famiglia. All’inizio si trattava più che altro di un hobby, una scommessa a cui dedicava le ore dopo il lavoro e il tempo libero. Dopo alcuni tentativi di monocoltura, decide di seminare delle orticole e inizia a venderle al mercato locale. È stato uno dei primi in assoluto a coltivare senza pesticidi, prima ancora che nascesse la certificazione Bio. Con gli anni l’azienda ha continuato a crescere senza cambiare modello produttivo e oggi possiamo contare su una superficie complessiva di 45 ettari in cui coltiviamo tantissimi articoli come patate, insalate, zucchine, zucche, pomodori, porri, fagiolini, cetrioli e tanto altro, cercando di coprire tutto l’arco dell’anno con prodotti di stagione“.
Siete la seconda generazione: perché avete scelto questo lavoro?
Pietro: “Non è stata una scelta scontata e non è stato immediato. Mio fratello ha cominciato prima di me, mentre io sono stato l’ultimo a unirmi, dopo la laurea in Agraria. In principio era un modo per dare una mano in famiglia, ma col tempo ci siamo appassionati e abbiamo deciso di rimanere per proseguire il lavoro avviato dai nostri genitori. Indubbiamente è un mestiere duro e pieno di sacrifici, non proprio in cima ai desideri e alle prospettive di un ragazzo di 25/30 anni, ma le soddisfazioni sono tantissime, prima fra tutte quella di partire da un seme e arrivare al prodotto finito. La pianta è un essere vivente come noi, con le sue necessità e le sue fragilità, e per questo bisogna sempre essere presenti in campo per assicurarsi che cresca sana e forte“.
Cosa vuol dire oggi produrre in modo biologico?
Giovanni: “Alla base del nostro modo di lavorare c’è la cura del terreno. Abbiamo abbandonato l’aratura ormai da anni e applichiamo le tecniche della minima lavorazione e dell’agricoltura conservativa per aumentare la componente organica e quindi la fertilità del suolo (componente arricchita ulteriormente dall’uso del letame come concime). Da un lato potrebbe sembrare un ritorno al passato, ma di fatto questi metodi rappresentano un grande passo avanti, che consente di produrre di più rispettando l’equilibrio dell’ecosistema. Con lo stesso obiettivo usiamo la pratica del sovescio, che nutre e fa riposare il terreno, migliorando anche la gestione della rotazione dei campi. Il lavoro è prevalentemente manuale e i macchinari sono impiegati solo in alcune fasi e solo se necessari. Infine, per difendere le piante dai parassiti usiamo la lotta biologica e insetticidi naturali, previsti dal disciplinare Bio. Spesso si attacca il biologico proprio perché non usa pesticidi chimici, ma bisogna sapere che oggi abbiamo a disposizione molti più strumenti di vent’anni fa e i prodotti disponibili sono estremamente efficaci. Ovviamente bisogna lavorare di più, ma è possibile ottenere risultati eccezionali“.
In pratica, il vostro obiettivo aziendale è la sostenibilità. È corretto?
Pietro: “Assolutamente sì. Come azienda puntiamo a una sostenibilità intesa nel senso più ampio del termine, come ambientale, sociale ed economica. Servono tutte e tre perché l’impresa possa funzionare. Certo, la sostenibilità ambientale è il punto chiave, perché l’ambiente è la nostra casa e dobbiamo fare di tutto per prendercene cura. Solo se partiamo da questo presupposto possiamo essere sostenibili anche a livello sociale ed economico e quindi continuare a produrre“.
Com’è cambiato il settore del Bio negli ultimi anni?
Giovanni: “La maggiore sensibilità del consumatore verso temi come la sostenibilità, la qualità e la sicurezza alimentare ha stimolato la crescita del mercato del biologico. Se siamo cresciuti così tanto negli ultimi dieci anni è grazie a realtà come Naturasì, Cortiglia, Bioexpress, Cooperativa Areté e Portanatura, che hanno scelto i nostri prodotti e ci hanno selezionato come partner. Sempre più gente decide di comprare ortaggi biologici al posto di quelli ottenuti da agricoltura intensiva, e questo è un buon segno. Inoltre il livello dell’offerta si è alzato di molto, anche dal punto di vista estetico. Insomma, il ‘brutto ma buono’ non esiste più: quello che produciamo è in grado di soddisfare anche l’occhio, oltre che il palato”.
Cosa serve a questo modello produttivo per crescere ancora di più?
Pietro: “Tanto dipende dalle richieste delle persone. Il modello della grande distribuzione ha completamente cambiato le nostre abitudini e oggi per noi è normale trovare qualsiasi prodotto in qualunque periodo dell’anno, anche se in realtà non c’è niente di normale. Rinunciare a una comodità così è difficile, quindi credo serva una profonda innovazione culturale: dobbiamo essere in grado di spiegare alle nuove generazioni quali sono le vere priorità, ritornando a un’offerta stagionale, più limitata ma migliore. La sfida è enorme, ma un modello come il nostro replicato in modo capillare avrebbe effetti positivi sull’ambiente, sulla salute e sull’economia, favorendo le piccole aziende e portando lavoro e ricchezza su tutto il territorio“.